L’archiviazione di una denuncia non è per forza indice di prospettazione calunniosa

Nel caso in commento l’imputata – difesa dall’avvocato Gianluca Ballo – era stata tratta a giudizio avanti al Tribunale penale Monocratico per rispondere del reato di calunnia, previsto e punito dall’art. 368 c.p.

Si ipotizzava nella prospettazione accusatoria che l’imputata, che aveva querelato l’ex compagno per maltrattamenti (denuncia poi archiviata), avesse rivolto allo stesso accuse materialmente false nella soggettiva consapevolezza della loro infondatezza.

Sosteneva l’avvocato Gianluca Ballo, difensore dell’imputata, che la semplice presentazione di una denuncia, che sia poi stata archiviata, non equivalga affatto alla prova della commissione del reato di calunnia.

L’elemento materiale del delitto di calunnia consiste infatti nell’incolpare falsamente taluno di un reato (di un fatto cioè che, alla stregua della descrizione fattane dall’agente nella denuncia, corrisponda in ogni suo estremo ad una ben determinabile ipotesi astratta di reato).

Ciò debitamente premesso, appariva evidente, mettendo a confronto quanto era complessivamente emerso dall’istruttoria dibattimentale con gli episodi descritti in denuncia, che i fatti addebitati dall’imputata all’ex compagno non potessero definirsi oggettivamente falsi od inveritieri, bensì almeno in parte autentici.

Risultava in particolare dalla produzione documentale dell’imputata che, in occasione di una serie di telefonate ricevuta da quest’ultima, materialmente trascritte, l’ex compagno avesse sempre assunto una condotta maltrattante, disprezzando, minacciando ed offendendo l’imputata come persona, come madre e come donna, facendo sovente ricorso al turpiloquio per intimorirla ed umiliarla in ogni modo possibile.

Tale stato di profonda prostrazione, umiliazione, paura e timore di sopraffazione era stato confermato da uno psicologo psicoterapeuta, chiamato a deporre come testimone ad esito di una lunga osservazione dell’imputata con elaborazione di un suo profilo di personalità a seguito di un tentativo di suicidio dal carattere solo dimostrativo, risultato di una situazione di estrema prostrazione e di insostenibile maltrattamento psicologico.

Tale deposizione confermava come l’imputata avesse vissuto una relazione squalificante con l’ex compagno, che lesinava anche la corresponsione del contributo al mantenimento della prole, che aveva iniziato a versare con regolarità solo dopo aver denunciato la ex compagna.

La parte civile, che si era costituita in giudizio veicolando un’esorbitante richiesta di risarcimento, era risultata infine per nulla credibile, negando contro ogni evidenza le condotte maltrattanti.

Venivano infine richiamati dall’avvocato Gianluca Ballo i principi fondamentali elaborati dalla giurisprudenza in materia di elemento soggettivo del reato di calunnia, vale a dire che esso non può consistere nel dolo eventuale, in quanto la formula normativa “taluno che egli sa innocente” richiede la consapevolezza certa dell’innocenza dell’incolpato (cfr. Cassazione penale, Sezione VI, n. 4112/2017).

Ed ancora veniva evidenziato che, perché si realizzi il dolo, è necessario che colui che falsamente accusa un’altra persona di un reato abbia la certezza dell’innocenza dell’incolpato, in quanto l’erronea convinzione della colpevolezza della persona accusata esclude l’elemento soggettivo, da ritenere integrato solo nel caso in cui sussista una esatta corrispondenza tra momento rappresentativo (sicura conoscenza della non colpevolezza dell’accusato) e momento volitivo (intenzionalità dell’incolpazione: Cassazione penale, Sezione VI, n. 17992/2007) e che non ricorre il delitto di calunnia se l’agente versi in situazione di dubbio o di errore ragionevole circa l’innocenza dell’incolpato (cfr. Cassazione penale, Sez. VI, n. 27846/2009).

Il Tribunale di Rovigo, ritenendo pienamente condivisibile la prospettazione difensiva dell’imputata – rappresentata dall’avvocato Gianluca Ballo – pronunciava quindi sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, non risultando provata la sussistenza né dell’elemento oggettivo né di quello soggettivo del delitto di calunnia (22).

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