La vendita di cosa altrui e l’argine della buona fede nel reato di appropriazione indebita

Nel caso in commento l’imputato – rappresentato e difeso dall’avvocato Gianluca Ballo – era stato tratto a giudizio, in concorso con altro soggetto, avanti al Tribunale penale Monocratico per rispondere del reato di appropriazione indebita, previsto e punito dall’art. 646 c.p.

Si ipotizzava, da parte della Pubblica Accusa, che l’imputato, benché consapevole dell’altrui appartenenza del bene, si fosse illegittimamente appropriato di un banco bar (completo di vetrina, frigo e lavelli).

La difesa dell’imputato, sin dalla prima fase delle indagini preliminari, metteva subito in evidenza come l’elemento soggettivo del reato previsto e punito dall’art. 646 c.p. fosse costituito storicamente dalla volontà di invertire il titolo di possesso in dominio e, conseguentemente, come – per consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità – integri il delitto di appropriazione indebita l’omessa restituzione della cosa da parte del detentore al legittimo proprietario, se dal comportamento tenuto dal detentore si rilevi un’oggettiva interversione del possesso (cfr. Cassazione penale, 2 febbraio 2009. n. 4440).

Orbene, appariva legittimo dubitare che, nella fattispecie concreta, tali circostanze potessero dirsi effettivamente integrate: l’imputato, infatti, aveva regolarmente perfezionato con una scrittura privata, conclusa con un soggetto terzo rispetto a colui che ne rivendicava la proprietà, l’acquisto dei beni mobili esistenti all’interno di un locale bar/ ristorante, fra cui il banco bar di cui in premessa, menzionato nella denuncia querela presentata dal sedicente proprietario.

La scrittura privata (e la prova del pagamento del prezzo di vendita del banco bar) era stata da subito esibita e prontamente fornita dall’imputato all’Autorità Requirente.

Trattandosi inoltre, nella fattispecie, di una vendita di cosa altrui, la scrittura privata conteneva la dichiarazione di un professionista avvocato (che assisteva il venditore: soggetto diverso, già lo si è detto, rispetto a chi in querela aveva rivendicato la proprietà del bene) il quale aveva garantito la piena ed esclusiva proprietà dei beni mobili in capo al venditore da lui rappresentato e la loro libertà da ogni vincolo ed onere, prestando ampia garanzia per l’evinzione.

Ciò nondimeno, la Pubblica Accusa riteneva che l’imputato dovesse essere considerato comunque consapevole dell’altrui appartenenza del bene, ipotizzando come egli, prima di procedere all’acquisto, dovesse prudenzialmente verificare le circostanze che risultavano dichiarate nella scrittura privata, finanche contattando il precedente sedicente proprietario (che aveva sostenuto in querela di avergli mostrato una fattura, emessa dall’Istituto Vendite Giudiziarie, che avrebbe comprovato l’acquisto del bene de quo ad un’asta che aveva avuto luogo diversi anni prima).

Sosteneva però l’avvocato Gianluca Ballo che non si potesse affatto – in una fattispecie quale quella di cui era processo – richiedere ad un compratore tale eccezionale diligenza, posto che l’imputato, per effetto delle modalità di acquisto come sopra riferite, era quindi (o, comunque, data la sua buona fede, legittimamente si considerava) il proprietario del bene mobile oggetto di compravendita e che, nel caso di specie, non avrebbe potuto certamente ipotizzarsi la ricorrenza né dell’elemento materiale della figura delittuosa (che presuppone, come sopra già detto, “l’altruità della cosa”) e né, soprattutto, la sussistenza dell’elemento soggettivo tipico del reato (ovvero “la volontà di invertire il possesso in proprietà”).

Il Tribunale penale Monocratico di Rovigo, ritenendo pienamente condivisibile la prospettazione difensiva dell’imputato – rappresentato dall’avvocato Gianluca Ballo – pronunciava quindi sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste, risultando che l’imputato aveva agito in buona fede ed aveva acquistato il bene dal legittimo proprietario (24).

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