La proposta conciliativa avanzata dal marito alla moglie in costanza di crisi familiare non costituisce prova del rapporto di lavoro subordinato

Non costituisce una ricognizione di debito, né una prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la proposta conciliativa avanzata dal marito alla moglie al fine di tentare di addivenire ad una bonaria regolamentazione dei rapporti patrimoniali fra i coniugi in crisi familiare.

Di questo avviso è stata la Corte d’Appello di Venezia, che rigettato l’impugnazione proposta dalla moglie divorziata di un facoltoso imprenditore, che aveva chiesto la riforma integrale della sentenza del Tribunale di Padova, insistendo per l’accoglimento della sua domanda di riconoscimento degli stipendi per presunte prestazioni da lavoro dipendente effettuate in favore dell’impresa del marito in costanza di matrimonio.

In particolare, l’appellante riteneva di aver dimostrato per documenti di aver svolto mansioni di segretaria nell’impresa del marito, instaurando un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, con ogni conseguenza sul piano del diritto al pagamento delle retribuzioni e ad ogni altro emolumento.

Oggetto di particolare attenzione per la Corte Veneziana è stata una comunicazione di posta elettronica inviata dall’imprenditore appellato, assistito dagli avvocati Alessandro Luciano e Gianluca Ballo – soci cofondatori dell’omonimo studio legale Luciano|Ballo & Associati – con cui egli aveva proposto alla moglie un accordo per cercare di addivenire ad una separazione consensuale, riconoscendole una somma di denaro per le attività di collaborazione che ella aveva svolto nell’impresa.

Tuttavia, considerate le circostanze in cui tale proposta era stata formulata, doveva affermarsi che essa non evidenziasse alcuna chiara manifestazione od ammissione dell’esistenza di un debito nei confronti della donna né, meno che mai, il riconoscimento di un vincolo di subordinazione al potere direttivo/organizzativo del marito quale datore di lavoro.

La Corte d’Appello di Venezia, respinta ogni doglianza dell’appellante, rigettava il gravame e condannava la donna al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

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